Cosa succede quando unisci lo Zero Waste e la vita Rotaractiana
Oggi Sofia ci racconta in prima persona come ha applicato le prime due R, Rifiutare e Ridurre, al suo armadio e alle occasioni formali per vedere come coniugare eleganza, divertimento e amore per l’ambiente.
(Avvertenze: Questo articolo non parla di felini. L’articolo contiene tracce di personale ironia e autocritica).
Oltre alle 5 R Zero Waste, c’è un’altra R nella mia vita, quella di Rotaract, questa è la breve storia (spero non triste) di come ho cercato di coniugare queste due anime con un progetto chiamato ROAR (Reuse Outfit At Rotaract).
Unire Rotaract e Rete
Il Rotaract è un’associazione di volontariato nata per sviluppare amicizia e leadearship tra giovani mentre si svolgono service (attività di beneficenza e/o divulgazione) sul territorio. Rotaract è un’associazione strutturata in dimensioni regionali, nazionali e internazionali, pertanto fornisce numerose opportunità di incontro e socialità tra conferenze, riunioni e feste.
L’anno scorso mi è stato proposto di occuparmi dell’Azione Internazionale. Questo ruolo implica il mantenere i contatti con i Distretti esteri, gestire una service specifico, possibilmente partecipando agli eventi del MultiDistretto Europeo.
Vorrei poter dire di aver accettato questa opportunità con serietà, sicurezza nelle mie capacità accompagnata da una musica ispirazionale di sottofondo. La verità è che all’immediato “Come lo faccio” è seguito un imbarazzante “Devo comprare dei vestiti”.
Non vado fiera di averlo pensato soprattutto perché ho un rapporto conflittuale con la moda, l’ideale di taglia e le immagini che ripropone. Il crescere donna (con le relative aspettative di genere), nipote di sarta, taglia a cui vengono associate svariate perifrasi problematiche (curvy, importante, dalle ossa grandi, morbida ecc…) ha reso questo rapporto ulteriormente difficoltoso.
Non volevo dare importanza a questo aspetto della vita associativa, ma ignorare la questione mi avrebbe portato solo a scelte poco ponderate. Per questo ho deciso di non comprare niente di nuovo. Il mio essere Bastian contrario e la consapevolezza di quanto la moda sia un’industria inquinante (grazie Rete e Fashion Revolution!) sono stati cruciali in questa scelta.
Perché comprare ancora vestiti nuovi?
Fu un articolo con un’intervista ad Arianna Huffington a spronare la mia motivazione. Huffington, che ripete molti dei suoi outfit, fa notare la pressione a cui le donne nel mondo del lavoro sono sottoposte per vestire sempre nuovi capi. In questo modo però le lavoratrici perdono un importante vantaggio competitivo, in termini di risparmio di tempo e denaro. Questo fattore viene sfortunatamente tenuto poco in considerazione quando si analizza il divario salariale di genere. Per me fu illuminante.
Perché non risparmiare soldi e tempo, considerato un armadio già pieno di capi che sapevo di amare e che amassero me? La sentite ora la musichetta ispirazionale di sottofondo? Bene. Sappiate che sono partita sbagliando tutto.
ROAR non è una vetrina di perfezione
Il mio primo ROAR, immortala un paio di scarpe eleganti. Non sono i miei storici tacchi neri (10 anni di età), dichiarate ormai irreparabili dal calzolaio a un mese dal primo evento Rotaract.
All’alba di questo funereo annuncio valutai di non comprare niente, ma non avevo altre scarpe altrettanto comode e che potessero stare bene con la maggior parte del mio armadio. Feci ricerca nei negozi dell’usato e vintage, ma non trovavo niente del mio numero (sospetto anche a causa di un pregiudizio locale verso l’usato). Feci anche ricerca tra marchi etici ma avevo un budget limitato e non potendo provare le scarpe non sentivo di “fare un investimento sicuro” (i miei piedi hanno quasi un numero di differenza e mi sono preclusi molti modelli di scarpe).
Alla fine trovai il perfetto paio di scarpe, del mio numero, nere, comode, compatibili con i miei strani piedi, in sconto. Unico problema? Erano assolutamente nuove, di un negozio fast fashion senza alcuna certificazione.
E le comprai, abbracciando la mia imperfezione.
Il vero errore? Credere che sarebbero durate! Erano comodissime MA, dopo averle portate un giorno intero su e giù per Caserta, il tacco e la punta erano visibilmente rovinati. Dopo solo tre mesi scoprii con rammarico che nemmeno quelle erano riparabili.
Non vado fiera della mia ignoranza o di una certa leggerezza che ora rivedo nel comprare. Credo però di aver anche imparato quattro cose importanti.
Due Preziose Epifanie
- Avevo davvero troppi capi: in un anno di ROAR non ho nemmeno ripetuto un outfit. Una volta per tutte ho realizzato di avere più capi di quanti io abbia bisogno o riesca a gestire. Ho riempito almeno tre grandi buste di vestiti che non usavo più e che ho dato via, altre ancora aspettano di trovare nuova casa. Nonostante questo ho ancora due armadi pieni nel mio appartamento e un altro ancora a casa dei miei, dove tengo i vestiti della stagione non in corso. Se condividere pubblicamente i miei errori non bastasse, sto valutando di tatuarmi sul braccio “Non è vero che non hai niente da mettere!“
- Quanto abbia comprato male in passato: ci sono diversi capi che avrei voluto continuare a utilizzare che possiedo in minima quantità (principalmente jeans e pantaloni) di cui ora sto cercando sostituti perché quelli che ho comprato erano di bassa qualità e/o non prodotti per essere aggiustati. Ho preso coscienza dell’effettiva qualità di ciò che uso, se un capo è realizzato bene (salvo incidenti o particolari sventure) non dovrebbe distruggersi in poco tempo e qualora capitasse dovrebbe poter essere aggiustato. Questi due fattori da soli escludono la maggior parte dei brand di fast fashion dal mio immaginario carrello.
Due False Percezioni
- Quella di urgenza: cercare di essere più organizzata può solo giovarmi ma, come per la maggior parte dei cambi di stile di vita, sto ancora cercando un equilibrio. Iper programmare quello che mi servirà mi ha portato ugualmente a comprare cose (a volte usate, a volte nuove, per mancanza di opzioni) il cui bisogno non si è mai presentato.
- Quella di scarsezza: soprattutto per quanto riguarda capi delle mie taglie. Attualmente vesto capi dalla 42 alla 50, ma alcune di queste taglie considerate “forti” non sono facilmente reperibili, spesso sono anzi inesistenti in marche sostenibili e/o economici. Questo mi ha portato ad acquisti duplici dello stesso pezzo, senza un immediato bisogno, nella paura che non avrei più trovato qualcosa che mi piacesse, mi stesse bene e fosse della mia taglia. Peggio ancora, a volte mi sono “accontentata” di ciò che trovavo, pensando che la nonna avrebbe potuto modificare in seguito alcune parti, finendo per non utilizzare affatto ciò che avevo acquistato.
Autocritica sì, darsi per vinti no.
Nonostante i miei errori, non mi sento sconfitta e porterò avanti questa sfida personale anche nel prossimo anno Rotaractiano (quando rinizieranno gli eventi fisici). Oltre ad aver risparmiato moltissimo tempo e denaro, mi è ancora più chiaro l’importanza del nostro impatto individuale, dell’impronta che decidiamo di (non) lasciare nel mondo intorno a noi.
Non ho certo inventato niente di nuovo, anche al di fuori del mondo della sostenibilità ci sono donne che ripetono i propri outfit, come Kate Middleton e Livia Firth; vi incoraggio a farci caso e soprattutto a supportare chi incontrerete e voi stessɜ nel tentare questa piccola rivoluzione personale.
Ognunə di noi può essere un esempio nel proprio piccolo. Del resto, il mio amato cappotto vintage rosso ha chiaramente ispirato Jane Fonda lo scorso Novembre, quando ha battezzato il suo altrettanto bellissimo soprabito come ultimo acquisto.
Daje Jane, anche la tua impronta conta!
(Musichetta in crescendo)